ZWEI MENSCHEN. IL PONTE

Eventi Culturali

Un libro, una graphic novel densa e intensa sulla quale, come ha detto Bruna Laudi che ha introdotto l’incontro, è necessario riflettere perché è una storia intricata e di spostamenti all’interno della complessità di un conflitto che è stato anche deportazioni e genocidio. “Zwei menschen. Il ponte” (Voglino editrice) è questo e molto altro ancora ed è stato presentato giovedì 9 gennaio 2025 in videoconferenza. Susanne Ruth Raweh ne ha discusso con Gabriele Segre. L’ incontro è stato organizzato - in attesa della Giornata della Memoria e dell’ 80esimo Anniversario della Liberazione - dal

Polo Cittattiva per l’Astigiano e l’Albese – I.C. di San Damiano e Museo Arti e Mestieri di un Tempo con Comune di Cisterna, Gruppo di Studi Ebraici di Torino, Ass. “F. Casetta”, Libreria "Il Pellicano"  Aimc di Asti.

Susanne Ruth Raweh è nata in Romania nel 1938, ha lavorato come assistente di lingua tedesca e poi come terapeuta coi sopravvissuti della Shoah in tarda età come testimone della Shoah in Italia.

Bruna Laudi è presidente del Gruppo di Studi Ebraici di Torino.

Gabriele Segre è direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre, è esperto di temi di identità e convivenza. Specializzato in Politiche pubbliche e Leadership, ha studiato all’Università di Singapore, alla Columbia University di New York e all’Università Cattolica di Milano. Ha lavorato per anni per le Nazioni Unite occupandosi di temi di leadership e riforma dell’organizzazione. Collabora con diverse testate, tra cui La Stampa, Il Sole 24 Ore e tiene una rubrica settimanale su Domani. È l’autore di “La cultura della convivenza. Di cosa parliamo quando parliamo di politica” (2024).

“La prima cosa che salta agli occhi – ha proseguito Bruna Laudi – è che le autrici sono due Susanne Ruth Raweh e Isabel Grube mentre le tavole sono di Max Cambellotti. Il tema del ponte che unisce è quello che sta portando avanti da anni il Gruppo di Studi Ebraici. Una storia che colpisce per le immagini e anche per il rapporto che si crea tra due uomini ma anche il viaggio è il tema ricorrente”. Susanne, che nasce poco prima della deportazione, nascosta, salvata più volte e sopravvissuta, non ha vissuto solo una vita ma molte. 

“Da tempo avevo in mente di scrivere scrivere il libro dopo aver recuperato la testimonianza di mio padre – Zaharia Siperstein - depositata allo Yad Vaschem di Gerusalemme. Intanto, nel 2019, nel 2019 avevo ricevuto un messaggio da Isabel Grube che mi cercava perché voleva conoscere la storia del nonno, il dott. Alfred Grube. Alla fine, ci siamo ritrovate a Torino e mi ha portato molto materiale. Per questo motivo, ho deciso di scrivere un libro su due uomini. In yiddish la parola mensch significa brava persona ma poi ho scelto di lasciare menschen in tedesco che vuole dire uomini. Isabel è una donna molto seria, bravissima a cercare la documentazione come la dichiarazione di mio padre che diceva che Grube non era un criminale, cosa di cui era stato accusato alla fine della guerra. Per quanto mi riguarda, dopo essere stata insegnante di lingue in Israele, sono diventata assistente sociale specializzata in psichiatria e, per 11 anni, ho lavorato a supporto dei sopravvissuti della Shoah. In tutte le testimonianze, ho trovato lo stesso problema. I bambini pensano che i genitori li proteggeranno sempre e, se ciò non accade e non riuscendo a capire, crescendo in loro matura un sentimento che li fa maturale e vedere la vita con altri occhi. Alcuni ex bambini hanno vissuto tutto questo e, da adulti, mi hanno raccontato la sensazione di abbandono esistenziale che hanno provato. Chi è entrato in terapia, un po’ è riuscito a capire ma gli altri, per tutta la vita, hanno cercato di conviverci” ha detto Susanne Raweh.

Una videoconferenza che ha saputo essere un incontro caldo e raccolto. Come ha sottolineato Gabriele Segre, ha avuto a che fare con la nostra intimità partendo dall’esperienza di Susanne Raweh che, attraverso la terapia, è entrata nell’anima delle persone che hanno vissuto questo trauma.

“Noi – ha detto Segre – viviamo questi traumi di cui hai raccontato come qualcosa sia di assoluto che di intimo. Però, allo stesso tempo, hanno una grande relazione con ciò che accade al singolo. Mi chiedo come, attraverso queste esperienze diverse, possiamo raccontare il male e creare una relazione con un sentimento di pietà che è l’empatia. Io sono un giovane che non ha vissuto quei traumi se non attraverso i racconti del nonno ma siamo parte di uno stesso popolo. Il libro porta una serie di esperienze anche interiori e, per questo, intense”.

Susanne Raweh ha allora ha raccontato la sua che è un’esperienza sicuramente singolare rispetto a quella di molti altri. Dai 4 ai 6 anni è stata internata in diversi lager con la famiglia. Trasportata, nascosta, senza cibi e vestiti.

“Non avevo capacità nè cognitive nè emotive per esprimere quello che avevo dentro fino a quando non sono entrata in terapia a a in terapia a 46 anni. Solo allora ho messo le parole. Prima non ne avevo parlato con nessuno. Forse avevo detto solo qualcosa a mio marito. I miei genitori non ne parlavano e, con la sua testimonianza allo Yad Vashem, mio padre non ha più detto nulla al riguardo. D’altra parte, se volevo comprendere i sopravvissuti, dovevo fare terapia anche io. Ma non è solo questo. Noi abbiamo anche subito la dittatura comunista in Romania: fame, freddo, persecuzioni sia perché ebrei sia per il fatto che mio padre era un medico ed io ho subito come figlia. La reazione nel corpo e nell'anima è stata fortissima da bambina. Non volevo più stare in pericolo con loro”.

Una famiglia che – come ha ricordato Segre – è stata in perenne spostamento durante la deportazione: radici da spostare, la ricerca di un luogo da poter considerare casa. Poi l’arrivo in Israele e la tranquillità attuale.

“La mia – ha risposto l’autrice – è stata da sempre una famiglia viaggiante. Mio padre era andato a studiare a Praga, si era sposato a Vienna e poi, per poter lavorare, era rientrato a Czernowitz. Poi sono arrivati i sovietici che ci perseguitavano perché borghesi. Oggi la mia famiglia è ancora errante – gli ebrei erranti – ma lo sradicamento non è mai stato un problema per noi. Per la prima volta, in Israele abbiamo provato una sensazione di appartenenza. È l’unico luogo dove ci sentiamo a casa nostra. Oggi mi sento di appartenere al popolo israeliano e al suo Paese che, allo stesso tempo, è il luogo più sicuro e insicuro del mondo. Però la mia casa del cuore è in Italia dove la mia mamma viennese, da ragazza, veniva a trascorrere le vacanze. Si era innamorata di un giovane, Eros, che  successivamente, aiutò la sorella (zia di Susanne) a fuggire. Per tutta la vita ho sentito parlare dell’ Italia e non degli ebrei. La moglie di mio fratello è veneta ed abitano in Italia.  Mi è però spiaciuto lasciare il mio appartamento torinese. La mia casa di appartenenza è in Israele, quella del cuore è in Italia”.

Ma cosa significa quando due persone oneste si incontrano e riconoscono?

“Una persona onesta è sincera, aperta al dialogo e non vuole farti male anche se, per via della guerra, deve comportarsi in un certo modo. Grube era un empatico e in mio padre ha trovato persona intelligente, colta e anche buon traduttore. Infatti, gli ebrei internati parlavano lo yiddish che mio padre conosceva come il tedesco. Inoltre, lo aveva aiutato quando la segretaria tedesca di Grube, punita per aver sposato un ebreo che era stato ucciso, era stata stuprata. La giovane donna aveva tentato il suicidio e mio padre le aveva salvato la vita. Grube era riconoscente per questo e gli aveva permesso di uscire dal campo per curare i contadini in cambio di cibo. Per questo motivo, siamo stati privilegiati. Questi due uomini avevano instaurato un rapporto di complicità. Tante cose le ho conosciute grazie alla testimonianza di mio padre e, anche grazie a questo, ho dato un nonno buono a Isabel Grube che aveva paura di scoprirlo un criminale, lo stesso timore di molti tedeschi.Era un uomo molto bello che non mi incuteva timore. La vera paura l’ho provata uscendo dal lager mentre mi stavano portando dai parenti su un treno pieno di SS. Forse mentre ero nel campo non sentivo, ero anestetizzata ma ricordo la fame e il freddo”.

Sul comportamento dei romeni nei confronti degli ebrei, ha sottolineato di non ricordare ma, rispetto a quanto ha approfondito attraverso i suoi studi, sono stati responsabili della morte per fame e stenti di molti di loro anche se, in cambio di soldi, erano facilmente corruttibili.

Ma la vita ha riservato a Susanne anche molti incontri che le hanno arricchito la vita. Uno degli ultimi è stato con l’illustratore Max Cambellotti durante una cena a Torino. 

Grazie a lui, alla responsabile della casa editrice, Cristiana Voglino e all’incoraggiamento di Laura Camis De Fonseca, il libro ha visto la luce dopo qualche anno di lavoro.

Come ha sottolineato Cristiana Voglino, il libro ha permesso a tutti coloro che vi hanno lavorato di esserne parte. L’ urgenza di parlare di questi argomenti è la molla che lo ha fatto nascere nonostante le difficoltà dovute alla verità delle sue pagine.

“La vita non è mai facile ma lavorare a questo libro ha messo in contatto 4 persone con confessioni diverse” ha detto Susanne.

“Un libro che, pur cogliendo la tragicità della Shoah, ha l’eccezionalità di essere anche una storia di speranza e di relazioni umane profonde. Come facciamo, secondo te, a decretare memoria del trauma ma anche di uscirne per vedere la speranza laddove i semi di speranza sembrano devastati?”  ha chiesto Gabriele Segre.

Secondo Susanne Raweh i sopravvissuti non ci saranno più e non potranno più fare niente. Solo l’arte può mandare avanti la memoria. Ci saranno poeti, pittori, scrittori… che lavoreranno su questo. Noi non potremmo più fare niente ma solo le altre persone potranno creare quel che serve per andare avanti. Non saranno i politici ma le anime buone a portare speranza. 

 

Le conclusioni di un incontro denso e profondo sono state raccolte da Bruna Laudi che ha ricordato come, per il secondo anno – il Giorno della Memoria sarà difficile all’interno di una rivisitazione della storia. Come fare a fare diventare la narrazione della Shoah qualcosa di universale? Un desiderio che viene annichilito quotidianamente da qualche interpretazione malevola sui social.

“Non ho domande ma la speranza di valori indipendenti dalle persone ma veri come lo spirito che aleggia nei libri di Primo Levi. Non ho domande ma il desiderio di unirci in questa speranza perché credo che, da sempre, al buio segua il sorriso. Lo dimostra Susanne che ha vissuto anche grandi gioie e una bellissima vita. Con queste premesse mando a tutti voi questo augurio” ha concluso Bruna Laudi.

Susanne, Bruna, Gabriele grandi persone che, con la forza e il coraggio delle proprie parole, sanno costruire ponti anche dove tutto sembra crollare.

Giovanna Cravanzola

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