ARBE, IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO ITALIANO

Se una memoria condivisa è impossibile, bisogna almeno riconoscere e accettare le diverse memorie della sofferenza”. Con queste parole Eric Gobetti ha concluso l’incontro “Arbe, il campo di concentramento italiano” che si è tenuto il 10 ottobre 2024 al Castello di Cisterna. L’iniziativa è stata organizzato dal Polo cittattiva per l’Astigiano e l’ Albese – I.C. S. Damiano, Museo con Comune di Cisterna, Israt, Ass. “F. Casetta”, Libreria "Il Pellicano" e Aimc di Asti. A dialogare con Gobetti la

direttrice dell’ Israt, Nicoletta Fasano che ha sottolineato il lavoro archivistico compiuto su documenti in lingua originale compiuto dallo storico. Il punto di partenza è stato un inquadramento storico. Arbe è un piccolo episodio all’interno delle vicende riguardanti l’occupazione italiana dei Balcani. Il primo passo è l’invasione dell’Albania nel ‘39, precedente l’inizio della guerra e, soprattutto, non richiesto dall’alleato nazista. Occorre, a questo riguardo, sottolineare che l’Italia è stata in guerra per tutto il ventennio. La Jugoslavia è messa sotto attacco per via della rivendicazione di territori appartenuti alla Repubblica di Venezia. Il primo impatto è di tipo diplomatico ma, nel 1941, si arriva all’occupazione vera e propria della zona balcanica. In quest’opera, l’esercito italiano è quello che ha giurato fedeltà al re ed è proprio qui che l’Italia impiega il maggior numero dei suoi contingenti. Fino all’8 settembre, viene attuata una guerra contro i partigiani locali ma non solo. Gli italiani, ritenendosi da sempre superiori, attuano un razzismo antislavo e ciò contribuisce alle violenze perpetrate contro popoli considerati inferiori anche se non come gli africani. Dal ‘41 il territorio è controllato dagli italiani anche se ci sono zone collaborazioniste e governi civili. Presto, però, si manifesta una forte ed efficace resistenza contro la quale l’esercito italiano è chiamato a rispondere. La circolare 3 C di Mario Roatta, è un vero e proprio manuale su come sconfiggere la resistenza balcanica. Bisogna operare con le stesse modalità violente delle colonie e allora brutalità e violenze vengono elargite senza sconti.

Tutta la popolazione locale viene considerata nemica con punizioni collettive a meno di non dimostrare la fedeltà agli italiani. Quindi grandi rastrellamenti, spesso pur non trovando la presenza di partigiani che formavano un vero e proprio esercito. In caso contrario, vengono uccisi. Tutti gli altri, uomini, donne e bambini, vengono deportati nei campi di concentramento.

L’intento è rendere i paesi inospitali per i combattenti e, sovente, ci sono anche fucilazioni per rappresaglia. La stessa strategia utilizzata dai nazifascisti in Italia.

Il tema è molto importante perché, ancora oggi, la maggior parte degli italiani è convinta che gli unici campi di concentramento siano stati quelli nazisti. In realtà, molti anni prima di loro, li misero in funzione gli italiani in Libia determinando, con la sottrazione del bestiame, la morte per inedia della metà dei 100 000 internati. Nei Balcani, i campi italiani non hanno lo scopo di sterminare la popolazione ma di sconfiggere la resistenza anche con l’uccisione di civili. In ogni caso, buona parte dei prigionieri muore rinchiusa in centinaia di luoghi che pochi conoscono. Il più grande si trova ad Arbe” ha proseguito Gobetti.

Qui gli italiani costruiscono un campo di concentramento dove recludere civili razziati con l’accusa di aiutare i partigiani. Nasce nell’estate del ‘42 ma i rastrellamenti proseguono fino alla primavera del ‘43. Le caserme o altre strutture non sono sufficienti e quindi si pensa a questa soluzione. È una deportazione di massa. Vi arrivano circa 110 000 deportati. All’arrivo dei primi, il campo non è terminato: solo tende, né acqua nè cibo. Ecco le cause della morte per inedia, malattie di moltissimi prigionieri e grande sofferenza. D’estate si soffre il caldo torrido e con l’autunno si inizia a morire. Oggi i sopravvissuti, allora bambini, ricordano il delirio dei moribondi che invocavano acqua. Inutilmente. Nessuno dei loro cari poteva dar loro conforto. Deportati che ricevevano un terzo di una scarsa razione di cibo. Le provviste sono rivendute dal comando del campo. Ci sono delle denunce anche da parte di alcuni carabinieri presenti ma le cose non cambiano. Un’alluvione notturna aumenta ancora di più il numero dei morti. Moltissimi sono i bambini. Vengono poi trasferiti in un altro campo ma la la situazione migliora solo con la costruzione di strutture in muratura. Nel campo ci sono anche degli ebrei e, in questo caso, lo scopo è difenderli, per ragioni umanitarie, dai nazisti. Viene costruito un campo migliore dell’altro, gli ebrei sopravvivono anche se molti altri sono sterminati altrove. Dopo l’ 8 settembre ‘43, alcuni partigiani internati si organizzano e convincono il comando del campo a dare loro il controllo.

È l’accordo che permette ai soldati italiani di andarsene liberi in barca verso Rimini.

Si costituisce una brigata partigiana. Due soldati italiani si uniscono alla resistenza jugoslava altri vengono aiutati dai locali.

Ma cosa rimane di questi luoghi di sofferenza?

Molti luoghi sono stati distrutti e il ricordo della maggior parte è stata cancellata.

Arbe – ha detto Gobetti – è diventato luogo della memoria anche se è stato quasi tutto smantellato tranne l’ultima parte che è stato in parte usato come ospedale psichiatrico. Negli anni ‘50 è stato costruito un cimitero memoriale ma, anche in Croazia, non è un luogo di culto perché vi sono morti degli sloveni. Soprattutto è la memoria jugoslava contro cui la Croazia ha combattuto.

L’Italia repubblicana non ha mai riconosciuto questo crimine fascista e le autorità civili non hanno preso parte neppure alla commemorazione dell’ 80esimo anniversario”.

Un’assenza rumorosa che deve risuonare all’interno delle coscienze di ogni italiano che vuole fare i conti con la storia del proprio Paese.

 

Giovanna Cravanzola


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